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Noto e celebrato come uno dei più grandi scrittori del primo ‘900, Salvatore Di Giacomo fu uno degli autori più prolifici e di spicco della scena letteraria napoletana post-unitaria. Visse tutta la sua vita a Napoli, che conobbe intimamente e da molto vicino grazie alla sua attività di giornalista, riuscendo a comprendere e trasmettere lo spirito romantico del popolo napoletano come forse nessuno era riuscito prima di lui. Pur senza mai lasciare il capoluogo campano, conobbe, influenzò e si fece influenzare da alcuni degli intellettuali e artisti italiani più importanti della sua epoca.
Autore eclettico ed estremamente produttivo, nel corso della sua vita scrisse di cronaca e letteratura su numerosi giornali, produsse uno strabiliante repertorio di poesia dialettale di cui una buona porzione adattata in musica, scrisse svariate decine di novelle e opere teatrali e in età più avanzata si dedicò anche alla saggistica. Conosciuto ad oggi soprattutto per essere stato l’autore di alcuni dei classici più amati della canzone napoletana, si mantenne sempre fedele alla lirica dialettale, sviluppando un proprio stile di dialetto colto e ricercato, ma che con la sua immediatezza è stato in grado di trasmettere i sentimenti più delicati e complessi della gente comune.
Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 12 marzo 1860, figlio primogenito di Francesco Saverio Di Giacomo e Patrizia Buongiorno. Suo padre era un affermato medico abruzzese, mentre sua madre era una musicista, figlia a sua volta di un insegnante del prestigioso Conservatorio di San Pietro a Maiella, istituto superiore di studi musicali del centro storico napoletano, fondato ufficialmente nel 1808 da Francesco I di Borbone, ma le cui origini risalgono sino al ‘500. Visse tutta la sua vita a Napoli, dove studiò, lavorò come giornalista e bibliotecario e condusse la sua intera attività autoriale, fino ad ammalarsi nel 1930 di una non meglio specificata patologia urinaria mentre era in vacanza a Sant’Agata dei Due Golfi, suo storico luogo di villeggiatura.
Questa gli valse quattro anni di sofferenza e immobilità, finché non pose fine alla sua vita il 5 aprile 1934 nella sua abitazione in via S. Pasquale a Chiaia, all’età di 74 anni.

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Com’era comune presso i ceti benestanti di metà ‘800, Di Giacomo si avviò verso gli studi classici a partire dai 10 anni e sin dalla prima adolescenza dimostrò una vocazione poetica e una passione per la scrittura fuori dal comune, tanto che collaborò al giornale scolastico per tutta la durata dei suoi studi secondari. Dopo aver conseguito la licenza liceale al Vittorio Emanuele III di Napoli nel 1877, frequentò per tre anni la Facoltà di Medicina, a cui si iscrisse per soddisfare le aspettative del padre. Di Giacomo non era davvero interessato, né ritenne mai di essere portato per gli studi scientifici, per cui frequentò l’università con modesto profitto e senza mai riuscire a sentirsi a suo agio. Tutto ciò proseguì fino ad una mattina di ottobre del 1880, quando, alla soglia dei suoi vent’anni, un raccapricciante incidente verificatosi durante una lezione di anatomia, che l’autore raccontò nel 1886 in una famosa pagina autobiografica dell’Occhialetto di Napoli, fu l’ultima goccia nel vaso e lo traumatizzò al punto tale da fuggire in preda al terrore dalla sede del suo ateneo di Sant’Aniello a Caponapoli, e dal percorso accademico, senza mai guardarsi indietro.

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Liberatosi dell’università, Di Giacomo poté finalmente avvicinarsi ai suoi veri interessi e, attratto dalla prospettiva di occuparsi di produzione e critica letteraria, iniziò rivolgendosi al Corriere del Mattino, allora diretto da Martino Cafiero. La sua collaborazione con il quotidiano cominciò scrivendo una serie di racconti brevi di genere misterioso e ambientazione rurale tedesca ispirati allo stile dell’all’epoca famosa coppia Erckmann-Chatrian. Le novelle di questo primo periodo, inaugurazione della prolifica produzione narrativa dell’autore, non ebbero molta fortuna e Cafiero, assieme a Federigo Verdinois, che si occupava della pagina letteraria, sospettarono potesse averle tradotte. Di Giacomo fu costretto a scriverne altre per dimostrarne l’autenticità, ma il suo potenziale venne notato e ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Non passò molto tempo, infatti, prima che Di Giacomo diventasse collaboratore ordinario del Corriere e redattore dell’intera rubrica letteraria. Fu in questo periodo che strinse alcune delle sue amicizie più solide e influenti, come quella con gli affezionati colleghi Roberto Bracco e Giuseppe Mezzanotte, oppure quella con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo introdussero nei più vivi e colti ambienti napoletani. l’artista fondò anche un periodico letterario di nome Il Fantasio e la sua crescente esperienza come giornalista e fotografo, talvolta anche di cronaca, lo avvicinarono sempre di più al tenore di vita della Napoli più verace, vissuta dal punto di vista del popolo, con tutti i drammi, le tensioni e le incertezze del periodo di transizione post-borbonico. Fu questo, inoltre, il periodo in cui per la prima volta Salvatore Di Giacomo iniziò a sperimentare con la poesia dialettale, accumulando nel tempo un gran numero di componimenti.

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Negli anni successivi, forte della sua esperienza, Salvatore Di Giacomo lasciò il Corriere e passò a collaborare con diversi giornali d’alto profilo, arrotondando nel frattempo con vari lavoretti, tra cui il correttore di bozze presso la tipografia editrice di Francesco Giannini. Scrisse prima per il Corriere e il Pro Patria, per poi passare alla Gazzetta Letteraria, al Pungolo e successivamente al Corriere di Napoli. Nel 1892 fondò infine una propria rivista indipendente di topografia e arte napoletana intitolata Napoli Nobilissima, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri importanti intellettuali dell’epoca suoi amici, tutti famosi per avere il Gambrinus come uno dei loro principali punti di ritrovo. Questo è forse il periodo autorialmente più produttivo per Di Giacomo, la cui opera fu a tutto tondo tra liriche, novelle e drammi per il teatro. Nel 1884 raccolse e pubblicò per la prima volta le sue poesie per l’editore Tocco sotto il titolo Sonetti. Si trattava, secondo Di Giacomo, di testi ancora acerbi e che non riflettevano lo stile e la profondità narrativa per cui vorrà essere riconosciuto una volta affermato, ma che non di meno in quegli anni attirarono l’attenzione di numerosi compositori di successo che vollero collaborare per l’adattamento musicale di alcune delle liriche. Queste, con non poca frustrazione dell’autore, finirono per riscuotere un notevole successo tra il pubblico partenopeo, che si identificò e affezionò sia alle tematiche che al linguaggio evocativo, inserendosi da subito tra quelli che oggi consideriamo i grandi classici della canzone napoletana dell’età d’oro. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891).

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A partire dal 1893 e per i suoi successivi 41 anni, Salvatore Di Giacomo, ormai rassicurato economicamente dal suo successo musicale, sentì la necessità di ritirarsi in uno stile di vita più contemplativo, per cui abbandonò definitivamente il Corriere di Napoli e con esso il giornalismo, e ricoprì l’incarico di bibliotecario presso numerose istituzioni cittadine, tra cui: biblioteca del conservatorio di San Pietro a Maiella, Biblioteca Universitaria e Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III. Nel 1902 divenne direttore della Sezione autonoma dedicata alla collezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale, un vasto inventario musicale e drammaturgico donato dall’omonima casata nobiliare nel 1888, mentre dal 1925 al ’32 fu bibliotecario capo. Durante questo periodo Di Giacomo si isolò volontariamente dal fermento della Belle Époque napoletana, nel tentativo di raffinare le influenze linguistiche dialettali che aveva assorbito fino a quel punto in una forma massimamente pura ed espressiva. La sua fama di uomo sognante e passionale l’aveva reso molto popolare fra le donne, ma non si legò mai emotivamente a nessuna fino ai suoi 45 anni, quando conobbe per corrispondenza epistolare Elisa Avigliano, inizialmente sua ammiratrice e di ben 19 anni più giovane. Il loro fu un rapporto tormentato e burrascoso, in costante tensione tra il desiderio di indipendenza di lei, aspirante insegnante, e l’insicurezza di lui, costantemente condizionato dalla madre iperprotettiva a cui era molto legato. Malgrado i conflitti, la sinergia era forte e i due convolarono a nozze il 20 febbraio 1916. Nonostante l’indiscusso successo in terra natìa, fino ai primi del ‘900 Di Giacomo era ancora relegato sulla scena nazionale alla nicchia di “poeta dialettale” e fu solo grazie a una serie di critiche positive istigate dal collega Benedetto Croce, che portò all’attenzione la sua abilità lirica universale, che Di Giacomo entrò di diritto tra i grandi del XX secolo. Nel 1925 Di Giacomo aderì al Manifesto degli Intellettuali Fascisti e nel 1929 fu nominato ufficialmente Accademico d’Italia.